Ampliare gli orizzonti degli e-commerce: intervista a Pietro Perona di Koodit

Dal cuore del Piemonte all’economia globale, passando per Amazon, Shopify e Google. Koodit è una “boutique e-commerce” nata per aiutare le PMI italiane – soprattutto quelle con prodotti Made in Italy – a crescere nel mondo. Dietro questo progetto imprenditoriale c’è Pietro Perona, founder, che ha accettato di raccontarci il percorso dell’azienda, le sfide della crescita, il ruolo della formazione, dell’intelligenza artificiale e l’impatto di Réseau Entreprendre Piemonte nel definire la rotta.
Di cosa si occupa Koodit?
Koodit è una boutique e-commerce specializzata nel supportare le piccole e medie imprese, in particolare quelle che propongono prodotti Made in Italy, con l’obiettivo di aiutarle a crescere a livello internazionale. Ci occupiamo sia dello sviluppo tecnico e strategico degli e-commerce, sia della strategia di posizionamento sui marketplace — da quelli più grandi come Amazon e Alibaba, fino a quelli di nicchia — utilizzati in modo mirato per far conoscere i brand su specifici mercati esteri. Un esempio emblematico è il lavoro svolto con Pastiglie Leone, oggidi proprietà della famiglia Barilla, che ha potuto rafforzare la propria presenza internazionale proprio grazie a un utilizzo strategico e multicanale di queste piattaforme.
Negli ultimi due anni avete raddoppiato il fatturato e stretto partnership con Amazon, Shopify e Google. Qual è stata la strategia chiave che ha permesso questa accelerazione?
Il fattore chiave è rappresentato dai servizi che offriamo ai nostri clienti, affiancati da partnership strategiche con grandi piattaforme come Amazon, Shopify e Google. Collaborare con questi attori, che normalmente non sono accessibili a tutte le imprese, ci consente di fornire un supporto altamente qualificato e di accedere a risorse e know-how difficilmente raggiungibili in autonomia. Queste collaborazioni non solo accelerano i processi di crescita, ma generano anche un effetto leva importante: quando un cliente vede che lavori in sinergia con realtà così solide e riconosciute, percepisce maggiore affidabilità e si sente più sicuro nel fare scelte strutturali per il proprio business.
A gennaio 2024 avete avviato un piano industriale che accompagnerà Koodit fino al 2026. Su quali investimenti o iniziative vi state concentrando maggiormente?
Siamo a metà del percorso e possiamo dire che, finora, le cose non sono andate esattamente come previsto. Ma l’idea è stata preziosa proprio perché ci ha insegnato l’importanza di essere flessibili e di cambiare idea quando necessario: a fronte di tutto ciò abbiamo rivisto molte scelte iniziali, imparando a non restare rigidi su un’unica visione. Uno degli obiettivi principali era far percepire Koodit, dall’esterno, come una vera boutique digitale e costruire credibilità nel nostro ambito. Per farlo, abbiamo lavorato sulla produzione di contenuti capaci di posizionarci come esperti e autorevoli. Abbiamo individuato alcune chiavi strategiche, tra cui la sostenibilità e la valorizzazione delle risorse umane, che rappresentano una sfida importante nel piano triennale.
Come sta procedendo il piano?
Il primo semestre del 2024 è stato particolarmente difficile: ci sono stati momenti di incertezza e cambiamenti, perché i risultati non arrivano mai subito. Ma ora iniziamo a raccogliere i frutti di quel lavoro. I dati a metà percorso ci dicono che siamo sulla strada giusta e che alcune scelte si stanno rivelando vincenti. Questo è stato possibile anche grazie al supporto di Réseau Entreprendre Piemonte: senza di loro, probabilmente non avremmo avuto né le competenze né la spinta per affrontare questo tipo di cambiamento. Il valore aggiunto è arrivato anche dai momenti di confronto più difficili, quelli in cui ricevi feedback contrastanti che ti mettono in discussione. Sono proprio quei “mal di pancia” costruttivi che ti obbligano a rivedere le cose da prospettive nuove ed è lì che spesso nascono le intuizioni migliori.
Ha sottolineato l’importanza del team e delle competenze come asset fondamentale: quali modalità di sviluppo formativo avete per il team?
Nel 2022 eravamo alla ricerca di talenti con competenze verticali su tecnologie o strumenti specifici — come il coding — ma che avessero anche una solida base di soft skills. In una startup, queste competenze trasversali sono essenziali per affrontare le difficoltà quotidiane: parliamo di capacità di ascolto, autonomia, spirito di collaborazione; la nostra missione è sì fare profitto, ma anche generare un impatto positivo sulle persone, e in questo le soft skills fanno la differenza. Nel 2024 abbiamo attraversato un momento di difficoltà che ci ha costretti a tagliare il budget per la formazione. Paradossalmente, è stata una delle scelte migliori: ci ha fatto capire che il modello formativo che stavamo adottando si era trasformato in una forma di assistenzialismo. Da lì, abbiamo completamente ripensato il piano formativo, integrandolo con quello di welfare aziendale. Abbiamo ridotto le ore di formazione tecnica e aumentato quelle dedicate alla crescita personale, introducendo percorsi di coaching e sviluppo delle soft skills. Questo ci ha permesso di riallineare il team attorno a un linguaggio comune, basato su una nostra definizione condivisa di “eccellenza”.
Che tipo di talenti cercate?
Oggi cerchiamo persone che siano capaci di “connettere i puntini”: ci piace definirle mentalmente aerodinamiche, cioè in grado di leggere la realtà, sperimentare, sbagliare, apprendere, collaborare e combinare le proprie competenze con coraggio e visione. Una delle sfide più grandi, però, riguarda i profili junior: spesso faticano a usare strumenti come ChatGPT perché manca loro il contesto per farlo efficacemente. Questo apre un interrogativo importante: chi colmerà questo gap? Siamo convinti che la formazione debba rimanere un asset fondamentale, ma che vada gestita con cura. Serve un approccio più umano: le persone hanno bisogno di connettersi tra di loro, non solo con gli strumenti digitali. Se riuscissimo davvero a favorire questo tipo di scambio, molte cose cambierebbero. Ed è in questa direzione che vogliamo andare.
Parlate frequentemente di IA come parte della nuova rivoluzione industriale. In quali contesti Koodit sta già implementando soluzioni IA?
In Koodit già a fine 2023 abbiamo attivato un tavolo di lavoro settimanale dedicato, che si chiama Koodit Next, proprio per esplorare e sviluppare progetti legati all’intelligenza artificiale. Si tratta di un’attività di ricerca e sperimentazione continua, attraverso cui stiamo già implementando agenti IA in grado di produrre report, analizzare dati e svolgere compiti ripetitivi che tradizionalmente richiedevano ore di lavoro umano. Un report che prima occupava 7 ore di tempo, oggi può essere completato in 25 minuti, richiedendo solo un controllo finale. Questo ci permette di liberare risorse preziose, che possono essere impiegate in attività a maggior valore aggiunto. Tuttavia, questo processo porta con sé anche delle insidie. Da un lato, c’è il rischio di perdere quella dinamicità tipica delle persone; dall’altro, soprattutto per i profili junior, emerge un gap importante di comprensione e contestualizzazione: non basta usare l’IA, bisogna saperla interpretare. È qui che si gioca la partita: trovare un equilibrio tra efficienza e consapevolezza.
Come si è concretizzata questa evoluzione all’interno di Koodit?
Negli ultimi due anni, la trasformazione è stata radicale. Alcuni dei servizi che offrivamo nel 2022 non sono più richiesti oggi. Nei primi sei-sette anni di vita dell’azienda realizzavamo decine di siti web all’anno, anche per importi importanti: era il core business. Oggi quei tempi sono finiti. Il sito in sé non è più il fulcro; la domanda si è spostata verso strumenti strategici legati all’internazionalizzazione, all’analisi, alla gestione omnicanale e alle competenze verticali nel mondo dell’e-commerce. Abbiamo quindi implementato l’IA soprattutto nella parte strategica, che è anche il nostro vero valore aggiunto: come far crescere uno shop digitale in un ecosistema complesso e competitivo. Per farti un esempio concreto: nel 2018 realizzavamo 40 o 50 siti all’anno, mentre oggi ne facciamo 4. Ma sono progetti molto più strutturati, perché il nostro ruolo è cambiato: non siamo più solo esecutori, ma partner strategici di crescita. E questo richiede un mindset completamente diverso.
Dal 2019 operate in smart working al 100% con hub distribuiti tra Biella e Milano. Quali sono stati i pro e i contro di questa trasformazione?
In realtà, abbiamo iniziato a sperimentare lo smart working già nel 2018, più per necessità che per scelta. Io ero a Biella con due persone mentre Alessandro, oggi mio socio, viveva a Milano e lavorava con noi spesso di sera o nel tardo pomeriggio. Essendo impossibile trovarsi fisicamente nello stesso spazio ci siamo chiesti: come possiamo lavorare insieme in modo efficace? Abbiamo iniziato con qualche giornata in coworking, poi ci siamo accorti che il lavoro da remoto funzionava bene, anche perché le nostre attività non richiedono una presenza materiale. Nel 2019 eravamo in cinque o sei e a quel punto abbiamo deciso di strutturare il modello in modo stabile. Da allora, fino allo scorso anno, abbiamo proseguito con lo smart working al 100% senza incontrare problemi, anzi, questo ci ha permesso di assumere talenti da tutta Italia che altrimenti non saremmo riusciti ad attrarre. Certo, è stato un investimento: abbiamo sostenuto costi elevati, ma in cambio abbiamo portato in azienda competenze di alto livello, mantenendo al contempo la nostra competitività. Il nostro lavoro, per sua natura, si presta già a un approccio “smart”, quindi l’adattamento è stato piuttosto naturale.
Ci sono state criticità in questo approccio?
Il “Pietro” di due o tre anni fa lo avrebbe considerato un asset perfetto, ma con il tempo sono emerse anche delle criticità. Ad esempio, abbiamo iniziato ad assumere profili under 25 e ci siamo scontrati con il fatto che — anche per legge — gli apprendisti non possono lavorare esclusivamente da remoto. E c’è un motivo valido: una persona molto giovane ha bisogno di confronto diretto, di osservare i colleghi più esperti, di imparare anche attraverso le interazioni quotidiane. Per questo abbiamo investito nella creazione di un “vivaio” interno: tanta formazione, mentoring, affiancamento. Ogni sviluppatore junior aveva un senior come punto di riferimento, con cui si collegava regolarmente per ricevere formazione personalizzata o co-progettare attività reali. Questo ci ha permesso di accelerare l’acquisizione di competenze interne, piuttosto che doverle cercare all’esterno. Tuttavia, col tempo abbiamo anche percepito un certo calo nello spirito di squadra: mancava la battuta, la risata condivisa. Così, pur mantenendo lo smart working come base, abbiamo rivisto leggermente il modello.
Come vi configurate oggi?
Pur mantenendo il contratto del commercio, lo affianchiamo a un accordo individuale che garantisce flessibilità — ad esempio, con la possibilità di non venire in ufficio per interi mesi, salvo eccezioni. Abbiamo inoltre introdotto un piano di welfare aziendale sperimentale, con buoni pasto e misure per ammortizzare i costi. Tutto questo si inserisce nel nostro nuovo piano industriale triennale 2024–2026, sviluppato anche con il supporto di Réseau Entreprendre Piemonte. Ci siamo resi conto che, in alcuni casi, una maggiore “seniority” in azienda — ovvero la presenza fisica, anche solo di 5-6 persone in ufficio — può avere un impatto positivo. Lo smart working ci ha insegnato moltissimo, ma oggi sentiamo l’esigenza di ricalibrarlo. È una fase di passaggio necessaria, e rappresenta un tassello importante della nostra evoluzione come azienda.
Nella sua vita, personale e lavorativa, ha avuto un mentore o un’altra fonte di ispirazione?
Sì, una figura che mi ha colpito molto è un uomo di circa 50 anni che, a un certo punto della sua vita, ha deciso di rimettersi in gioco completamente. Era una guida alpina e, allo stesso tempo, un consulente finanziario. Dopo diversi anni di attività, ha fatto una “exit” e recentemente ha scritto pubblicamente di voler mettere il proprio tempo a disposizione di chiunque abbia un’idea imprenditoriale da sviluppare. Se qualcuno avesse fatto lo stesso con me, in modo disinteressato, anni fa, forse avrei evitato molti errori. In passato ho cercato dei mentor, ma spesso mi sono imbattuto in persone con secondi fini. Alcuni imprenditori incontrati lungo il mio percorso, anche se per brevi tratti, mi hanno lasciato qualcosa — piccoli frammenti di valore che ho saputo raccogliere.
E se potesse tornare indietro cosa farebbe?
Col senno di poi, se potessi tornare indietro, entrerei subito in una rete come Réseau Entreprendre: è un tipo di organizzazione che offre supporto autentico, non finalizzato al profitto personale, ma all’impatto che si può generare. Anche i libri anno avuto un ruolo importante nella mia formazione: il mio testo di riferimento è The Lean Startup di Eric Ries, che considero la mia “bibbia” da startupper perché insegna metodo, disciplina e sperimentazione continua. Un altro libro fondamentale è Zero to One di Peter Thiel, uno dei fondatori di PayPal: un vero e proprio manifesto sulla costruzione di valore partendo da zero.
Se non fosse diventato imprenditore, cosa avrebbe fatto?
Da bambino sognavo di fare il vulcanologo, poi ho pensato di diventare cuoco e infatti ho frequentato l’istituto alberghiero. Ma presto mi sono reso conto che quell’ambiente non faceva per me: lo percepivo come un mondo “infelice”. A quel punto ho deciso che avrei voluto diventare un audio engineer, un tecnico del suono. Ma, come spesso accade, le cose non sono andate secondo i piani e oggi faccio tutt’altro.
Qual è il valore di Réseau che ti rappresenta di più?
Il valore che sento più mio è senza dubbio la responsabilità. Réseau Entreprendre si assume un impegno importante nel validare e accompagnare startup e imprese in crescita, con un tasso di successo altissimo. Prendersi la responsabilità del futuro di queste persone — perché di questo si tratta — è qualcosa di molto serio, e Réseau lo fa con una dedizione e una serietà che raramente si trovano altrove. E lo fa in modo eccellente.
Che sogni hai per il futuro di Koodit?
Il mio sogno per Koodit è che possa continuare a prosperare mantenendo lo spirito che ci ha sempre contraddistinto: la capacità di cambiare, evolversi e adattarsi nel tempo. Credo che sia proprio questa flessibilità a determinare la longevità di un’azienda. Le realtà che si sono fermate, che non hanno saputo leggere il cambiamento, oggi sono spesso in difficoltà. Noi, invece, siamo riusciti a evolverci, a creare un rapporto di fiducia con i nostri clienti, e a coltivare una vera passione per ciò che facciamo. Il mio sogno è che Koodit possa continuare a crescere senza mai perdere questa passione, questo coinvolgimento profondo che ci spinge a dare sempre il massimo. Ci chiamiamo tra noi Kooder, e non è solo un nome: è un senso di appartenenza.
E per quello personale?
Sul piano personale, ho tanti sogni. Uno, in particolare, è quello di continuare a crescere come persona e come imprenditore, portando la mia visione anche al di fuori di Koodit. Mi piacerebbe diversificare, esplorare altri ambiti molto diversi dal nostro attuale business, e riuscire a declinare il mio approccio imprenditoriale in modo trasversale, creando valore in contesti nuovi.